RECENSIONI


Caravaggio a Roma
La mostra alle Scuderie del Quirinale
Recensione di Nicoletta Retico 

E’ sempre un’emozione trovarsi di fronte ai quadri di Michelangelo Merisi, passato ormai alla storia direttamente come Caravaggio, che è  molto più di un appellativo o di un toponimo. Caravaggio è diventato un titolo, che richiama all’istante l’identità di un genio, di un’epoca e di una rivoluzione artistica. Un sovversivo della pittura che, impugnando con la stessa disinvoltura il pennello e la spada, tracciò uno squarcio tra la corrente del Manierismo ancora in voga e quella del Barocco che stava cominciando. Varcò la porta temporale del 1600, rappresentando un unicum che non permetteva ai contemporanei di classificarlo dentro un movimento, ma che, post-mortem, con naturalezza si appropriarono dell’epiteto per identificarne i seguaci: quella corrente internazionale di pittori caravaggeschi, una legione armata di pennello, che per un secolo seguitò ad intingerne la punta nella sua arte.
Poi il suo nome cadde inspiegabilmente nell’oblio, per tornare definitivamente alla gloria alle soglie del Novecento.
Nato artisticamente a Roma, che giustamente gli dedica la mostra più grande nella celebrazione di questo quarto centenario, Michelangelo Merisi firmò un solo quadro, nel sangue del Battista decollato di Malta e non lasciò memorie autografe. Seguendo la lezione di Annibale Carracci che sosteneva che “noi pittori abbiamo da parlare soltanto con le mani”, per Caravaggio la pittura rappresentava la sua lingua, il suo manifesto ideologico e il suo testamento.
Perché la pittura è un linguaggio, che parla a livello conscio ed all’inconscio e a questo affida in via subliminale messaggi e significati nascosti ai più. E insinua che in realtà, a guardar bene, in ogni suo quadro la firma c’è: è nelle goccioline di rugiada e nell’ammaccatura della frutta della Canestra che sporge dal tavolo, nel taglio di luce laterale dei dipinti giovanili, nel vino che ancora ondeggia nel calice sollevato dal Bacco, negli spartiti autentici e negli occhi languidi dei Suonatori, nel tendone teatrale e sanguigno della Giuditta che decapita Oloferne, nel vello del capro, nelle erbe grasse e nei cespi di tasso barbasso dei vari San Giovanni, nel gioco di rispecchiamenti e complicità dei Bari, nelle caraffe trafitte dalla luce nelle Cene, nel braccio esangue dellaDeposizione, nella mirabile natura morta di strumenti e nell’impudicizia esibita dall’Amore Vincitore, nell’imbizzarrimento del cavallo della Conversione, nei gesti loquaci delle mani nella Cattura di Cristo, nel senso di abbandono del cupo Amorino Dormiente, nel tenero abbraccio materno e nella spoglia semplicità dell’Adorazione dei Pastori, negli urli strozzati delle vittime, nei suoi autoritratti ricorrenti, nelle grida di dolore, nell’oscurità che avvolge e dà rilievo ai corpi, nei panneggi e nei piumaggi rapaci degli angeli, nelle unghie sudice e nelle vesti lacere di apostoli, aguzzini e osti, nei modelli e modelle che sovente tornano a mettersi in posa nei suoi quadri.
Dalle opere giovanili con esempi mirabili di natura morta di frutta o strumenti musicali, si passa ai personaggi degli adolescenti spavaldi, ma che ben presto crescono e mutano, maturando il percorso personale e artistico del Caravaggio che si rivela nelle opere più drammatiche e teatrali, in cui il sangue, il pathos e la morte si avvicendano. Non mancano anche nelle ultime opere, quelle cosiddette “della fuga”, esempi di lirismo e grande capacità narrativa.
Ho visto ventitre capolavori. Il ventiquattresimo, il meraviglioso Risposo durante la fuga in Egitto aveva appena lasciato la mostra per essere esibito in un’altra, peccato. Strana questa grande esposizione, sicuramente ardua da organizzare, tra quadri promessi ed altri negati; ha il merito di aver messo insieme tante opere del Caravaggio, alcune mai giunte finora a Roma, permettendo di potervi sommare la visione degli altri capolavori custoditi nei musei e nelle tre note chiese capitoline, ma sembra un’esposizione “in divenire”. Un po’ come doveva essere l’antica collezione nella dimora del Cardinal Del Monte, in cui alcuni quadri di Caravaggio permanevano, altri invece sostavano giusto il tempo di essere mostrati e poi finivano in dono al Granduca di Toscana o migravano in altre collezioni, come quella del marchese Giustiniani.
E così oggi: per un primo quadro che parte per Genova ce ne sarà uno in arrivo da Napoli (La Flagellazione), poi nel giro di qualche settimana altri dipinti ripartiranno.
La redazione di un giudizio critico è un compito delicato, che non mira a denigrare le scelte e l’operato di un team di grandi esperti, ma può servire a perfezionare le mostre future, mettendo in luce le possibilità di miglioramento. Ecco, mettere in luce è proprio la parola chiave di una intera mostra dedicata a Caravaggio.
Di questa grande esposizione direi che l’illuminazione lascia un po’ perplessi. Non che si dovesse per forza chiamare un “premio Oscar” come Storaro per orientare i faretti, iniziativa forse elusa per contenere il budget (che poi, davvero contenere? si consideri che per l’allestimento risultano spesi ufficialmente circa 2 milioni di euro e la mostra ha già registrato il tutto esaurito nelle prenotazioni, coprendo già nei primi due mesi i costi; con una media di 5000 visitatori al giorno a 10 euro a biglietto, le previsioni di ricavato sono di oltre 3 milioni di euro!), ma considerando che la potenza artistica e narrativa del Caravaggio è quasi tutta in quei meravigliosi contrasti di luce-ombra, dove anche le tenebre che circondano i corpi non sono un buio assoluto ma hanno in realtà un contenuto e una trama, quei rigidi fasci luminosi degli spot rendono poco leggibili e talvolta negano alla vista degli spettatori più attenti l’intero argomento, soprattutto dei grandi quadri. Direzionare il raggio di luce in modo che abbia la stessa incidenza di quella dipinta da Caravaggio, significa dissolverne la completa percezione, tanto che più di un osservatore ha commentato di non riuscire a distinguere bene tra quella accidentale e quella dipinta dall’artista.
E poi, optando per una luce direzionale così incisiva, tanto valeva chiudere il cerchio e collocare almeno un dipinto al centro di una sala “colpendolo” con una luce radente, preziosissima per chi, già conoscendo o volendo stupirsi per la prima volta della tecnica del Merisi, volesse cogliere quelle sue incisure fatte col manico del pennello direttamente sulla preparazione, per fissare i contorni dei soggetti e ritrovare le pose dei modelli.
Questa è una lacuna, dettata forse dalla necessità di disporre i quadri in fila sulle pareti perché fossero ben controllabili e non troppo avvicinabili, provvedimento vano: tanto valeva mettere i cordoni di protezione, piuttosto che lasciare l’illusione di poter guardare da vicino le pennellate, facendo invece scattare costantemente l’allarme, cosa che interrompe senza sosta il sogno ad occhi aperti di chi immagina la musica arpeggiata nei quadri dei vari Suonatori
Con un piccolo sforzo in più, per supplire alla mancanza (causa negazione) dell’unica opera firmata che è la Decollazione di Malta, magari si poteva collocare con un semplice supporto inquadrante un altro dipinto (eseguito sempre a Malta) al centro del percorso: quel Cupido dormiente, in modo da poterne vedere sia il verso che il recto, che avrebbe mostrato l’annotazione “Opera del Sr Michel Angelo Maresi da Caravaggio in Malta 1608”, regalando lo stesso un piccolo brivido agli appassionati.
Che dire poi dell’ordine cronologico? L’inizio del percorso faceva ben sperare, partendo dalla Canestra (uscita per la prima volta dalla Pinacoteca Ambrosiana, già questo un successo degli organizzatori!) e seguitando con i lavori romani di Bacco e Ragazzo con cesto di frutta, con i capolavori eseguiti presso il cardinal Del Monte, per le chiese e per i committenti romani, fino alle opere napoletane e siciliane. Salendo al piano di sopra il percorso riporta indietro di qualche anno, ripartendo dall’Amore Vincitore che Caravaggio aveva dipinto a Roma per il marchese Giustiniani e qui di nuovo si corrispondono opere romane (varie edizioni del S. GiovanniSacrificio di Isacco e altre) con opere cosiddette “della fuga”.
L’esposizione si chiude con l’Annunciazione (fresca del necessario restauro, così comel’Adorazione dei pastori), che a mio parere crea un po’ di imbarazzo al “leitmotiv” della mostra, in cui si ribadisce che sono esposte solo le opere assolutamente certe. Precisando che sono più del triplo le opere indubbie, solo che i proprietari non le hanno volute prestare, l’Annunciazione è un dipinto eseguito tra il 1609-1610, in cui la mano certa di Caravaggio è rintracciabile semmai nell’angelo (nonostante il volto celato dall’ombra) mentre è poco leggibile nel profilo e nei lineamenti monotoni della Vergine, nell’azzurro-lapislazzuli del manto (colore che l’artista non usava certo nella sua tavolozza) dal panneggio poco definito, nell’ambientazione poco curata. Il grande storico dell’arte Roberto Longhi scrisse a suo tempo che della parte autografa dell’opera “sopravvive solo l’angelo portentoso” e l’altro insigne studioso Ferdinando Bologna ha aggiunto che “si può supporre che il maestro si limitasse ad abbozzarlo e che, rimasto non finito alla sua partenza per i presidi spagnoli, il quadro fosse fatto pervenire in Francia da altri, ed eventualmente completato lì, in una trafila di interventi disparati per qualità e per epoca”.  
Non ho altre critiche, naturalmente costruttive, perché la mostra regala davvero grandi emozioni e poi si deve comunque esercitare il pensiero positivo: invece di enumerare e speculare troppo su quanto viene a mancare, si deve gustare capolavoro per capolavoro presente, essere grati di questa meravigliosa opportunità di poter godere così tanti capolavori in compresenza, alcuni provenienti da molto lontano o mai giunti prima.
Bisogna interrompere il flusso dei pensieri (e delle parole dei numerosi visitatori) per cogliere tutto il meraviglioso che ogni dipinto trattiene dentro la cornice.
Di ognuno sosta ancora nei miei occhi un particolare: un guizzo di luce, una pozza d’ombra colorata, la trasparenza del vetro, un riverbero sulla tovaglia bianca, la naturalezza delle nervature dei pampini, il barlume caldo di una lanterna, il gesto sospeso di una mano, la piega di un drappeggio, la curvatura morbida di un fianco, il realismo di una piuma, lo spessore di una ruga, il fremito del vento che solleva una veste, la rotondità perfetta di un acino d’uva, la profondità del rosso, la forma delle tenebre.
Di ognuno posso risentire dentro una vibrazione sonora: un grido disperato, il suono sommesso di un lamento, il frastuono di una rissa in lontananza, la ninnananna sussurrata all’orecchio di un bambino, il fragore di un tuono, il belare di un capro, il tintinnio del vasellame appena apparecchiato, lo scricchiolio asciutto della terra calpestata, il rumore di sottofondo dentro un’osteria, il fruscio delle foglie mosse dal ponentino, il sibilo del fendente di una spada, la nota armoniosa pizzicata sul liuto, la risata argentina di un adolescente sfrontato e il frullo di un’ala ancora in volo.
Di ognuno porto nel cuore un’emozione: la sensazione di un solo istante di felicità rubata, la paura di chi teme la morte, la rassegnazione degli umili, l’incredulità di chi perde qualcuno, la commozione di fronte al mistero della vita, l’idea del sospetto, il senso di un solo attimo di esitazione, il rapimento mistico durante un concerto, l’impressione che suscita la vista del sangue, lo sgomento negli occhi del carnefice, l’imprudenza della vittima, l’incanto dei sensi, l’ebbrezza della giovinezza, l’insidia che attende nell’ombra, il dolore di chi soffre, la perdita della speranza, il tormento di chi tradisce, l’intuizione del proprio destino e un brivido di turbamento sensuale.
Nessun altro artista colpisce così in profondità.
Dopo una simile visione mi sento abitata anch’io da un po’ di quel genius loci di Caravaggio, che era sparso per il mondo e ora, grazie a questa mostra, rivive gloriosamente a Roma, quattrocento anni dopo il suo tentativo estremo di farvi ritorno.     N.R.

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